Quali sono stati gli impatti della crisi Covid sulla sua impresa, anche in termini di fatturato?
L’emergenza Covid ha prodotto una forte riduzione del fatturato nel solo mese di aprile in quanto non siamo rientrati nelle imprese autorizzate dal codice Ateco (tutte le metalmeccaniche sono state escluse). Tenete conto che, abbiamo reagito prontamente all’emergenza applicando, ancor prima della chiusura obbligatoria, tutte le misure di sicurezza necessarie per la limitazione del contagio dell’epidemia. Questo anche grazie ai consigli e ai suggerimenti dati da una nostra consociata cinese. Abbiamo obbligato tutti i collaboratori all’uso delle mascherine, alla sanificazione di ambienti, mani e al distanziamento mediante turni scaglionati in zone comuni; tutto questo già dalla fine di febbraio. All’inizio i dipendenti, ci hanno visto come estremisti, poi con il passare dei giorni hanno capito che stavamo lavorando per la loro sicurezza e hanno realizzato, come noi volevamo, che l’azienda fosse riconosciuta come un posto sicuro.
Quali sono gli scenari su cui state lavorando da qui a un anno?
Nel breve periodo dovremmo recuperare abbastanza facilmente il fatturato perso nel mese di chiusura che ha coinvolto, non tanto e non solo noi, ma soprattutto la gran parte dei nostri clienti. Lavoriamo con tempi di consegna a 30 giorni e con un portafoglio ordini di 2-3 mesi, per questo motivo, i problemi veri li vedremo in autunno. Prevediamo un calo del fatturato del 20-30% nell’ultimo quarto, complessivamente puntavamo a fare un +10%, per questo, però, siamo costretti a rivedere le nostre stime molto in negativo tra il –20 e il –10%. Abbiamo recuperato per i mesi in cui avevamo ordinativi già in mano, ma i nuovi ordini non sono arrivati. Tenendo conto che fatturiamo il 60% in Europa e il 30% in Asia e che questi sono mercati che si sono quasi completamente fermati.
Quali cambiamenti organizzativi avete dovuto apportare nell’immediato per gestire la riapertura e quali pensate di approntare nel breve periodo?
Nel periodo di chiusura abbiamo continuato a produrre, in maniera ridotta, per non fermare i nostri clienti che rientravano nelle categorie autorizzate, cioè principalmente industria alimentare e farmaceutica, comunicando direttamente con la prefettura. Grazie a questo nel mese di aprile siamo riusciti a mantenere il 60% del fatturato. Per gli impiegati abbiamo attivato il lavoro a distanza che già usavamo, ma non in maniera così massiccia. Siamo infatti passati da 5 a 35 dipendenti da remoto in pochi giorni. Nonostante questo aumento improvviso il sistema informatico ha retto bene, dal momento che abbiamo sempre investito molto nell’infrastruttura It e nei programmi software. Lo sforzo fatto per rispondere all’emergenza è stato comunque molto consistente anche in termini burocratici.
Con la chiusura dell’azienda abbiamo, inoltre, chiesto la cassa integrazione che per ora, abbiamo utilizzato molto relativamente: circa 100 ore su 50 persone.
Abbiamo però dei piani piuttosto precisi per i prossimi mesi: se per qualche motivo dovessimo avere dei buchi negli ordinativi o dei momenti morti, non credo utilizzeremo la Cig, ma ci dedicheremo alla crescita interna. Dobbiamo trasferire dei reparti, organizzare gli spazi di un nuovo immobile e fare dei collaudi che da tempo non riusciamo a realizzare. A meno di crolli fragorosi abbiamo in mente un nostro percorso.
Ci sono degli obblighi che accelerano dei cambiamenti che erano già previsti o delle trasformazioni che, in qualche modo, potrebbero risultare utili a prescindere dalla stretta emergenza? In questa visione alcuni degli investimenti che state realizzando potrebbero rendere la vostra impresa più resiliente nei confronti di prossime eventuali emergenze?
L’emergenza ci ha spinto a pensare il flusso di lavoro in modo diverso: a lavorare su turni, cosa che prima non facevamo, a gestire entrate e uscite scaglionate e a osservare tutta una serie di altre precauzioni. Abbiamo stilato un protocollo insieme al sindacato e a un’unità di crisi che si muoveva e suggeriva le prassi che avremmo dovuto applicare. Adesso abbiamo acquisito linee guida e ci sentiamo più pronti, anche a futuri cambiamenti. Da questa emergenza drammatica “portiamo a casa” dei cambiamenti culturali. Abbiamo imparato a essere più elastici e pronti al cambiamento. Il Covid ha messo a dura prova tutta l’azienda, ma adesso è più facile cambiare. Dal punto di vista pratico, lo smart working è sicuramente uno strumento che entrerà a far parte dell’azienda (soprattutto per impiegati e per chi deve gestire la famiglia) laddove i risultati ottenuti sono ottimi con una produttività anche maggiore.
In generale non abbiamo apportato cambiamenti nell'organizzazione del lavoro, le mansioni sono descritte molto chiaramente e se si possono svolgere da remoto, perché non farlo? Sulle linee di produzione, dovendo sottolineare un passo in avanti, stiamo aggiungendo al controllo da remoto sistemi di videoconferenza molto flessibili e in grado di avvicinare le persone. Quando ci hanno costretto a chiudere istintivamente ho bloccato tutti gli investimenti relativi al 2020, poi, quando abbiamo riaperto, ho riapprovato tutto perché pensiamo che questa sia una situazione transitoria. Non è come nel 2008, quando ci fu una chiusura completa delle attività, qui c’è stato un rallentamento.
Alla luce di questa vicenda è mutato il vostro rapporto con l'innovazione? Pensate che questa crisi potrebbe accelerare/rallentare l’introduzione di qualche innovazione in azienda oppure prevarrà la necessità di "tornare ai fondamentali"?
Il primo passo che stiamo portando avanti è l'inserimento di una cabina di verniciatura automatica con robot. Pensiamo che possano svolgere i lavori meno qualificati e potenzialmente dannosi in sicurezza e con la stessa qualità.
Ovviamente questa innovazione non comporterà riduzioni del personale, anzi, probabilmente saremo costretti a portarci in casa nuove competenze per la gestione di queste lavorazioni.
L'emergenza sanitaria ha evidenziato dei limiti strutturali del sistema industriale italiano? Se sì, quali?
Limiti? Sì, ero abbastanza contrario alla chiusura obbligatoria delle aziende. Le istituzioni sono state rapide a redigere un protocollo, esattamente come abbiamo fatto noi in piccolo. A quel punto tutte le realtà che potevano soddisfare quei requisiti avrebbero dovuto avere la possibilità di restare aperte, mentre bloccare la produzione in questa maniera così drastica ha avuto tante conseguenze negative fine a sé stesse. Perché comunque all’apertura le aziende avrebbero dovuto applicare il protocollo, quindi che differenza ha fatto togliere i codici Ateco? Questo è stato un grave errore.
Come già detto, abbiamo continuato a lavorare mandando lettere al prefetto, perché alcuni nostri clienti come ad esempio Barilla o aziende chimico/farmaceutiche ci chiedevano avanzamenti dei progetti, che dovevano continuare a sviluppare.
Abbiamo così avuto l’ispezione documentale della Finanza, poi all’apertura sono venuti i carabinieri per vedere se avevamo applicato le regole del protocollo. Come per noi è avvenuto per tutte le 2000 aziende che avevano mandato la lettera al prefetto. Credo sia correttissimo che ci siano stati controlli rigidi, ma credo, e lo ripeto, che avendo seguito da subito i protocolli e assumendoci le dovute responsabilità, avremmo dovuto poter tenere aperto.
Mondo innovazione, se parliamo di Big Data...
Stiamo analizzando il mondo big data, perché se riuscissimo a mettere in rete i dati delle macchine che abbiamo nel mondo daremmo un servizio ulteriore ai nostri clienti. Questo perché, prima di rompersi la pompa dà dei segnali di vibrazione e/o riscaldamento. Se riuscissimo a mettere tutti questi dati in cloud potremmo anche costruire un sistema di manutenzione predittiva.
Finora abbiamo lavorato sull’efficientamento energetico con inverter, ma non siamo ancora pronti per manutenzione predittiva ed è un salto che potremmo fare presto.
Dal punto di vista della filiera, il reshoring può essere un effetto Covid?
Noi come scelta strategica aziendale abbiamo sempre avuto l’idea di avere più fornitori chiave. Il discorso riguarda, per esempio, le fonderie. In Europa stanno chiudendo tutte e sono sempre più delocalizzate verso Cina o India.
Noi, invece, abbiamo deciso di tenere aperti dei canali, anche se più costosi con fornitori europei. È stata una scelta che in questo periodo ci ha aiutato molto.
In generale però, se vogliamo che l’industria torni in Europa c'è bisogno di incentivi: la politica deve mettere al centro del dibattito il ritorno dell’industria. Questo vuol dire costruire un panorama non solo fiscale, ma anche normativo, che aiuti davvero chi fa impresa, industria e non solo servizi.
Detto questo uno dei limiti è l’eccesso di burocrazia. Per ampliare uno stabilimento abbiamo avuto bisogno di autorizzazioni di 25 enti, comprese le ferrovie dello stato, l’esercito, il canale, il comune… se non cambiano i presupposti, le pratiche burocratiche e le regole troppo penalizzanti, qui è difficile tornare a produrre.
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